Tutto iniziò per caso nell'autunno del 2002, durante alcuni lavori agricoli presso la tenuta di Santa Caterina, vicino alla Delizia Estense del Verginese. Il terreno restituì tre lapidi sepolcrali, poi altre ancora: era venuta alla luce una necropoli familiare romana, intatta da quasi duemila anni. Le campagne di scavo successive rivelarono cinque stele monumentali e dodici sepolture contenenti i resti di più individui. Si trattava del sepolcreto privato della benestante famiglia dei Fadieni, vissuta nel Delta ferrarese tra il I e II secolo d.C.

Sepolcreto dei Fadieni, Gambulaga di PortomaggioreLe cinque stele, oggi conservate presso il Museo Archeologico della Delizia Estense del Verginese, sono tutte scolpite nel pregiato calcare di Aurisina proveniente dal Carso, ed originariamente erano allineate come sentinelle di pietra lungo quella che doveva essere un'antica strada. I monumenti guardavano verso i viandanti, e non a caso: le iscrizioni dialogano direttamente con chi passa, invitandolo a fermarsi, leggere, ricordare. Dietro ogni stele, le tombe con i loro corredi. Un teatro della memoria familiare che attraversa quattro generazioni.

Sepolcreto dei Fadieni, ricostruzioneLa prima stele, la più antica, fu eretta dai figli per i capostipiti Caius Fadienus e Ambulasia Anucio. Una classica coppia di sposi romani ritratti nella nicchia superiore, con il frontone decorato da due colombe simbolo dell'unione coniugale. Un monumento tradizionale, sobrio, rispettoso. Ma è con le generazioni successive che la storia si fa drammatica.

Caius Fadienus Vegetus morì a ventun anni. I genitori, Fadienus Repentinus e Cursoria Secunda, gli fecero erigere una stele dove il giovane compare in una nicchia inferiore, mentre loro vegliano da quella superiore. Sul frontone, leprotti inseguiti da cani: la morte che ghermisce la preda, l'esistenza spezzata anzitempo. Un'immagine potente, scelta non a caso.

Stele di Caius Fadienus e Ambulasia AnucioAnche Pompennius Valens, figlio di Fadiena Tertia (sorella di Repentinus), morì giovane, a ventitrè anni. La sua stele porta lo stesso motivo di caccia e un carme struggente: "Crudeli ombre, rapiste un giovane acerbo nel suo ventitreesimo anno, ma nell'istante supremo la lacrimevole ora portò le tenebre". Parole che attraversano i secoli senza perdere la loro carica emotiva.

Stele di Caius Fadienus VegetusMa è Marcus Fadienus Massa, fratello di Repentinus e Tertia, a lasciarci il messaggio più potente. La sua stele è la più imponente, decorata con un elemento unico: nella parte inferiore compare un cavallo al passo, forse a indicare che Massa si occupava di allevamento equino o di trasporti. E nell'iscrizione, Marcus parla in prima persona al viandante: "Ave, Marco! Tu che passi hai letto il mio nome: ricorderai che questa è una dimora mortale. Vivete una vita ottima voi che siete al mondo; io vissi bene per quanto ho potuto e come ho voluto; ho dato a chi ho voluto, non ho dato a chi non volli; se qualcuno mi accusa, venga e discuta con me. Stammi bene, o Marco!"

Stele di Pompennius ValensSono parole che colpiscono per la loro modernità, per quell'orgoglio di chi rivendica di aver vissuto secondo i propri principi. Marcus non chiede pietà, non si lamenta: afferma con forza di aver condotto la sua esistenza con coerenza e dignità. È un messaggio di libertà morale che riecheggia filosofie epicuree ma esprime soprattutto un sentire umano universale.

Stele di Marcus Fadienus MassaL'ultima stele, la più elaborata dal punto di vista artistico, fu dedicata da L. Fadienus Agilis (figlio di Massa) e dalla compagna Atilia Felicia al loro figlio Actor, morto a diciassette anni. Il busto del giovane è inserito in un clipeo decorato, tiene in mano un rotolo e una penna - segni di educazione e cultura - e porta un anello al mignolo. Due carmi accompagnano la sepoltura. Nel primo parla il defunto stesso: "Tu che passi guardi il monumento della mia morte, guarda quanto indegnamente mi sia stata data la vita... Non voler dolere, viandante, bisognava morire; affrettò l'età, il Fato lo volle". Nel secondo è il padre a parlare, rivolgendosi alla pietra tombale: "Te, pietra, scongiuro, leggermente sopra le ossa riposa e non voler essere grave alla tenera età. Ciò che il figlio doveva fare per il genitore, la morte immatura fece sì che facesse il genitore".

Stele di L. Fadienus ActorTre giovani su cinque stele. Tre morti premature che segnano profondamente questa famiglia. Nel mondo antico la mortalità giovanile era tristemente comune, ma qui l'enfasi è particolare: monumenti elaborati, carmi poetici intensi, simboli scelti con cura. La mors inmatura - la morte precoce - era considerata particolarmente crudele perché spezzava non solo affetti ma anche la continuità generazionale, quella catena di vite su cui si fondava la sopravvivenza stessa della famiglia.

Corredo funebre sepolcreto dei FadieniI corredi funerari raccontano molto di questa gens. Tutti i defunti furono cremati altrove, secondo il rito della incinerazione indiretta: i corpi bruciati su roghi, le ossa raccolte, lavate con latte e vino, poi deposte nei cinerari. Alcuni di questi erano semplici contenitori in ceramica, altri preziose urne in vetro soffiato dai riflessi azzurri, forme eleganti che testimoniano contatti commerciali con Ravenna e il Veneto.

Nelle tombe, balsamari per i profumi usati durante il rituale, lucerne per illuminare le tenebre della morte, vasetti fittili, finimenti da cavallo in bronzo (conferma dell'attività di allevamento), e soprattutto una collezione eccezionale di vasellame in vetro finemente lavorato, rarissimo nel ferrarese. Le quindici monete ritrovate - tutte assi in bronzo da Tiberio ad Adriano - hanno permesso di datare con precisione le sepolture dall'età giulio-claudia (circa 30 d.C.) all'età adrianea (post 128 d.C.).

Chi erano davvero i Fadieni? Proprietari terrieri benestanti, certamente. La loro villa doveva sorgere nei pressi, lungo uno dei rami del Po - il Po di Spina o Eridanus - che attraversava queste terre portando commerci e prosperità. Probabilmente allevavano cavalli, gestivano trasporti fluviali, coltivavano le terre fertili del Delta. L'indicazione della tribù Camilia nell'iscrizione di Massa suggerisce stretti legami con Ravenna, importante porto dove collocare merci e sviluppare affari.

Il loro cognomen e alcuni nomi (Ambulasia, Massa) suggeriscono origini miste: la famiglia proveniva probabilmente dall'Italia centrale ma nel Delta entrò in contatto con popolazioni celtiche locali, forse attraverso matrimoni. Questo mix etnico-culturale era tipico del ferrarese romano, crocevia di genti etrusche, celtiche e latine.

Sepolcreto dei FadieniMa cosa accadde ai Fadieni dopo il II secolo? La famiglia scompare dalle fonti. Le morti premature certamente pesarono: tre giovani maschi persi significava meno eredi, meno forze lavoro, meno futuro. Alcuni figli menzionati nelle iscrizioni non furono sepolti qui: forse si erano trasferiti altrove, avevano intrapreso carriere militari, si erano dispersi. Fenomeno comunissimo nell'antichità, dove intere famiglie si estinguevano nel giro di poche generazioni.

Le ultime tombe, prive di stele, mostrano un rituale semplificato: forse il declino economico, o forse il fondo passò ad altri proprietari. A un certo punto il sepolcreto venne abbandonato, le stele abbattute ma con rispetto, senza devastazioni. I nuovi gestori delle terre volevano liberare l'area ma temevano i Mani, gli spiriti dei morti. Così le pietre furono semplicemente rovesciate, le tombe lasciate intatte.

E lì rimasero, dimenticate, per quasi duemila anni. Fino a quel giorno d'autunno del 2002, quando una vanga moderna riportò alla luce volti scolpiti, nomi incisi, storie sopite. Oggi, nella Delizia del Verginese, le cinque stele sono esposte come erano in origine, allineate come guardiani della memoria. Sul pavimento, una mappa dello scavo. Nelle vetrine, i corredi. E sulle pietre, quelle parole che ancora ci parlano.

Entrare in quella sala significa incontrare faccia a faccia i Fadieni. Vedere il dolore dei genitori per i figli perduti, leggere l'orgoglio di Marcus per la vita vissuta secondo coscienza, toccare con mano (metaforicamente) quegli oggetti quotidiani - lucerne, vasetti, anelli - che accompagnarono queste persone nel loro ultimo viaggio. Non è solo archeologia: è umanità pura, sono emozioni che superano il tempo.

Marcus Fadienus Massa ci invita ancora oggi a vivere una "vita ottima", a essere coerenti con noi stessi, a lasciare traccia del nostro passaggio. In fondo, è quello che hanno fatto i Fadieni: attraverso la pietra e le parole hanno vinto la morte, conquistando quella forma di immortalità che tutti, in fondo, desideriamo. Noi oggi li ricordiamo, parliamo di loro, ci commuoviamo per le loro perdite. Non è questa, in definitiva, la vera vittoria sul tempo?

Fonti utilizzate:

Genziana Ricci
Sono Genziana Ricci, una blogger curiosa e da sempre appassionata di storia, cultura e arte. Ho creato questo blog per condividere con i lettori piccole e grandi storie del territorio di pianura bolognese, ferrarese e modenese. Credo profondamente nel valore del confronto e della divulgazione di conoscenze legate alla nostra storia, alle tradizioni e alla cultura del territorio, perché sono parte della nostra identità e possono offrire alle nuove generazioni insegnamento e arricchimento. Del resto, la storia ha bisogno di camminare sempre su nuove gambe.

 

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