Varcare la soglia del Museo del Delta Antico significa compiere un salto temporale di oltre duemila anni. L'edificio che lo ospita è già di per sé una meraviglia: il settecentesco Ospedale degli Infermi, eretto tra il 1778 e il 1784 su impulso di Papa Clemente XIV, si erge maestoso con la sua facciata neoclassica scandita da quattro grandiose colonne che reggono un frontone triangolare. Il contrasto tra il rosso dei mattoni e il bianco luminoso della Pietra d'Istria cattura lo sguardo, mentre i due campanili a vela sembrano invitare il visitatore a scoprire i segreti custoditi al suo interno. Questo "tempio della salute", come recita la lapide dell'ingresso principale, dopo aver accolto malati fino agli anni Settanta del Novecento, è stato magistralmente restaurato tra il 1997 e il 2013 per diventare custode di una storia ancora più antica.
Entrare nel museo significa immergersi nella storia dell'antico delta del Po, quando il grande fiume sfociava qui, nel punto in cui oggi si trova Comacchio. Per secoli questo territorio è stato uno snodo cruciale di commerci e civiltà, un ponte tra il mondo adriatico-mediterraneo e l'Europa continentale. Quasi duemila reperti accompagnano il visitatore lungo un percorso che dalla nascita della Pianura Padana giunge fino al Medioevo, toccando le epoche d'oro della città etrusca di Spina, del dominio romano e della nascita di Comacchio come emporio medievale.
La sezione dedicata a Spina è forse quella che più colpisce l'immaginazione. Fondata verso il 530 a.C. lungo un ramo antico del Po, questa città fu per tre secoli il più importante porto dell'Adriatico settentrionale e il principale partner commerciale di Atene in queste acque. Immaginarla non è semplice: una città costruita su isolotti emergenti, dietro le dune sabbiose che ospitavano le necropoli, attraversata da una rete di canali ampi e navigabili, delimitati da lunghe file di pali e forse coperti da ponti e passerelle. Un'urbanistica razionale di tipo greco, con isolati rettangolari standard, simile a quella delle colonie della Magna Grecia.
Camminando tra le teche del museo, si scopre che a Spina arrivava di tutto: vino e olio dalla Grecia, unguenti e profumi dal Vicino Oriente, ambra dal Baltico. Per quasi due secoli Atene rifornì questa città di vino prezioso e di vasi a vernice nera e figurati, alcuni dei quali sono esposti con una bellezza che toglie il fiato. Ma Spina non era solo un porto di importazione: esportava cereali dalla fertile pianura retrostante, legname, pelli, carne di maiale e soprattutto sale, estratto dall'Adriatico con elaborati procedimenti. Le botteghe di ceramisti locali producevano migliaia di vasi per la cucina e la mensa, lasciando tracce del loro lavoro negli scarti e nelle stampiglie figurate che fungevano da marchi di fabbrica.
Quello che affascina è scoprire come vivevano gli abitanti di Spina. Le case erano costruite con materiali leggeri, legno e argilla, usando tecniche sofisticate: le più antiche con tronchi autoportanti secondo uno stile alpino, le più recenti con file di pali a sostegno di pareti in argilla cruda. Un recente scavo ha restituito la "fotografia" di una casa del 400 a.C. delimitata su tre lati da canali rinforzati con pali verticali e dotati di passerelle. All'interno, tracce di attività quotidiane come filatura e tessitura, e in una piccola buca accanto a un focolare, quattro preziose lamine d'oro raffiguranti guerrieri e un personaggio femminile, forse un piccolo tesoro nascosto nell'angolo più sicuro dell'abitazione.
La cucina era sorprendentemente varia e cosmopolita. A partire dal V secolo a.C. arrivarono pentole greche, simili a quelle di Atene e Corinto, portando con sé nuove ricette e una vera cultura gastronomica. Si consumavano verdure, legumi e frutta sia coltivate che selvatiche, non mancavano olio d'oliva, vino, aceto, miele e spezie. Nelle cucine si preparavano zuppe e stufati, si arrostivano carni di animali domestici e selvatici, tranci di pesce conditi con elaborate salse. Una mescolanza di culture tipica di un porto, dove ogni giorno si incontravano e fondevano pratiche culinarie etrusche e greche.
Spina scomparve nel III secolo a.C., dopo appena tre secoli di vita. Le cause furono molteplici: i mutamenti politici e commerciali in tutta l'Italia settentrionale con la calata dei Galli, l'espansione di Siracusa, il declino dell'influenza greca. Ma anche il paesaggio stava cambiando: la linea di costa si allontanava progressivamente verso est. Forse ci fu anche una fine violenta: gli strati più recenti restituiscono tracce di incendi e numerose ghiande missili, proiettili incendiari scagliati dai frombolieri. Dopo la fine della città sopravvissero solo modesti insediamenti romani e tardo-antichi. Le ricchezze dell'antico emporio divennero un ricordo custodito per secoli dal fango e dalle acque della laguna.
Ma è nella sezione romana che il museo riserva la sorpresa più straordinaria: il carico della nave di Valle Ponti. Nel 1981, nei pressi di Comacchio, fu ritrovata una nave mercantile naufragata con ogni probabilità tra il 19 e il 12 a.C., con gran parte del carico ancora a bordo. Il particolare ambiente privo di ossigeno ha conservato fino ai nostri giorni anche oggetti in legno, cuoio e fibre vegetali che raramente sopravvivono nei contesti archeologici. È come aprire una capsula del tempo.
La nave trasportava centodue pani di piombo, di peso variabile tra i diciannove e i quarantuno chili, provenienti da miniere spagnole. Quasi tutti sono bollati con la sigla AGRIP, ovvero Marco Vipsanio Agrippa, il grande generale di Augusto. Altri marchi come MAC, GEM, LPR si riferiscono probabilmente alle legioni Macedonica, Gemina e Legio Prima, comandate da Agrippa durante le guerre cantabriche. I legionari infatti venivano impiegati anche nelle attività di estrazione dei metalli. C'era persino un grande peso in calcare per controllare i lingotti con una bilancia a due bracci, certificato da un certo Titus Rufus.
Le anfore raccontano storie di vini pregiati: alcune di produzione adriatica contenevano olio o vino locale, altre trasportavano i raffinati vini dell'Eolia, dalle isole greche di Chio e Lesbo, dalla Caria e dall'isola di Kos. Erano chiuse con tappi di terracotta, alcuni realizzati a stampo, altri riciclati da pareti di anfore rotte, sigillati con pozzolana. Su molte anfore sono riportate sigle dipinte o graffite che potrebbero riferirsi al contenuto, all'anno di produzione, alla provenienza, al nome del commerciante.
Ma sono gli oggetti personali a rendere quella nave viva ai nostri occhi. Scarpe, borse, ceste, parti di abiti e custodie impermeabili in cuoio per il bagaglio. Dadi e pedine per passare il tempo durante la navigazione, contenitori per medicinali, accessori per l'igiene personale, un piccolo idolo dalle sembianze grottesche con funzione di amuleto. Resti di calzature femminili e una pantofola da bambino suggeriscono la presenza di passeggeri, forse una famiglia in viaggio. Le caligae chiodate, un gladio finemente decorato e la guarnizione di un fodero di pugnale indicano invece la presenza di militari, forse una scorta armata o un ufficiale in trasferimento.
Tra i reperti più affascinanti ci sono i tempietti miniaturistici in piombo argentifero, una testimonianza unica di oggetti di devozione. Prodotti in serie con lastrine stampate, riproducono templi su podio con colonnine ioniche e piedi a zampa di leone. Sulle pareti e sui tetti portano i segni della propaganda imperiale: il sidus Iulium (la cometa apparsa alla morte di Cesare), i trofei militari delle vittorie in Gallia, l'ibis egiziano simbolo dell'Egitto sottomesso. Nelle celle, munite di porte apribili, si trovano statue di Venere, progenitrice della famiglia Giulia, e Mercurio con una borsa di monete, spesso identificato con Augusto stesso.
La ceramica da bordo dà un'idea della specializzazione della cucina romana: olle per bollire, tegami per stufati, padelle da forno, mortai. Per la tavola brocche, bottiglie, tazze, bicchieri, piatti. Molti pezzi di ceramica sigillata rossa sono firmati da artigiani come Caio Aco e L. Sarius, che avevano officine a Ravenna, Adria e Faenza. Alcuni si dichiarano liberti, schiavi liberati, con nomi come Diophanes e Aescinus.
L'ultima grande sezione del museo è dedicata a Comacchio medievale, l'emporio costruito sulla sabbia che dal VII secolo contese a Venezia il primato nell'alto Adriatico. La prima menzione compare in un documento del 715, il Capitolare di Liutprando, che stabiliva i rapporti commerciali tra i Longobardi e questa nuova comunità. I Comacchiesi potevano trasportare merci fino a Pavia, capitale longobarda, pagando dazi lungo il Po. Trasportavano sale locale ma anche spezie, olio e garum di importazione mediterranea.
Gli scavi archeologici hanno restituito migliaia di anfore, più di qualsiasi altro centro dell'Italia settentrionale. Anfore diverse da quelle classiche, più piccole e rotondeggianti, che provenivano dal Mediterraneo orientale, dal Mar Egeo e dal Mar Nero, e contenevano soprattutto vino. Accanto a queste, anfore locali più piccole e funzionali per il trasporto lungo fiumi e lagune. Ceramiche invetriate in monocottura con decorazioni applicate, bicchieri a calice e lampade in vetro testimoniano una comunità prospera e specializzata.
Particolarmente affascinante è la scoperta di una bottega artigiana del VII secolo in piazza XX Settembre, dove si lavoravano vetro e metallo. Sono state rinvenute fornaci, postazioni per la soffiatura, crogiuoli e scarti di lavorazione. Ma soprattutto due matrici eccezionali: una valva in pietra per ottenere lettere in bronzo e una matrice in bronzo per cammei in vetro bicolore, quasi identica a un esemplare conservato nel Museo diocesano di Cividale del Friuli. Uniche nel loro genere, testimoniano l'altissima specializzazione di questa bottega.
Il museo non si limita a esporre reperti: coinvolge tutti i sensi. In alcuni punti del percorso vengono diffuse essenze profumate create appositamente, in collaborazione con l'Università di Ferrara. L'incenso resinoso e balsamico nella sezione delle sepolture romane, il fresco sentore di alghe e sale accanto alla nave, il profumo di rosa damascena dedicato alle donne etrusche, l'iris selvatico nell'area del simposio, le spezie orientali nella sezione medievale. Ogni fragranza trasporta il visitatore in un'epoca diversa, rendendo l'esperienza ancora più immersiva.
Uscendo dal museo, con lo sguardo ancora pieno di anfore, tempietti d'oro e scarpe di duemila anni fa, si comprende come questo territorio sia sempre stato plasmato dall'acqua e dagli uomini che hanno saputo adattarsi a essa e adattarla alle proprie esigenze. Un dialogo millenario tra natura e cultura che ancora oggi non si è concluso, e che il Museo del Delta Antico racconta con passione e competenza, rendendo vive civiltà che sembravano perdute per sempre nelle nebbie del tempo.
Bibliografia, link ed altri materiali utilialla scrittura dell'articolo:
- www.museodeltaantico.com
- Guida al Museo del Delta Antico di Comacchio – Ed. All'Insegna del Giglio (2017)
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