Erano ormai secoli che si scriveva di quel ciclo di affreschi perduto, con le più gloriose azioni di Borso d’Este distribuite lungo i dodici mesi dell’anno. Si diceva fosse nascosto sotto strati di calce in Palazzo Schifanoia, la più antica fra le delizie estensi, costruita ai margini della città di Ferrara. Poi arrivò un uomo colto e curioso, sinceramente amante dell’arte, intraprendente e al tempo stesso un po’ sprovveduto: riportò alla luce quella gloria, uno dei capolavori più straordinari dell’arte ferrarese. La riscoperta del Salone dei Mesi fu definita la più sensazionale della storia dell’arte europea, ma non senza polemiche e contrasti. Vale la pena, dunque, raccontarla.

 

Affreschi di Palazzo Schifanoia, FerraraDopo i fasti dell’epoca estense del Quattrocento e del Cinquecento, Schifanoia conobbe un lento declino, soprattutto a partire dal 1598, quando gli Estensi lasciarono Ferrara. Il palazzo perse i suoi connotati nobiliari, cambiò più volte proprietari e inquilini, che lo adibirono a usi civili e commerciali. Nel 1702 la famiglia Tassoni ne rilevò gran parte e nel 1707 venne demolita la loggia trecentesca. Il culmine di questo processo arrivò nel 1736, quando la parte più importante del palazzo, il Salone dei Mesi, fu affittata alla Società di lavorazione del tabacco. Allora ebbe inizio uno dei momenti più bui: lo scalone voluto da Borso d’Este venne abbattuto e le pareti affrescate furono imbiancate. Così scomparve, per sempre, uno dei simboli più alti dell’arte di corte dell’età borsiana.
Chiunque ami l’arte parlerebbe di scempio. Eppure, nel Settecento, le opere del passato venivano spesso considerate obsolete, trascurabili, talvolta sacrificabili. Basti pensare alla vicenda del Polittico Griffoni.

 

A testimoniare l’esistenza del ciclo pittorico rimasero solo le memorie di Girolamo Baruffaldi, che poté vedere le pitture prima della copertura, lasciandone un’interessante descrizione nel 1706 ma denunciandone anche il cattivo stato di conservazione: “La maggior parte di queste pitture, quantunque il luogo dall’aria difeso, dalla malizia e non curanza degli uomini è stata lacera e guasta”.
Gli fece eco Giuseppe Antenore Scalabrini nelle sue Memorie Istoriche di Ferrara (1773): “Ora sono sparite tante nobili fatiche per la non curanza e negligenza”.

 

Alla fine del secolo, poco dopo la cessione dei locali al Comune da parte dei Tassoni, qualcosa cominciò lentamente a muoversi. Nel 1795 Luigi Lanzi, rifacendosi a Baruffaldi, ricordò così la grandezza del Salone: “La invenzione era distribuita in dodici compartimenti di una gran sala; e potea dirsi un piccol poema, di cui Borso era l’eroe. In ogni quadro era rappresentato un mese dell’anno. In ciascun mese ricompariva quel principe nell’esercizio a lui consueto in tale stagione, giudicatura, caccia, spettacoli: cose varie e piene, anche nella esecuzione di varietà e poesia”.

Affreschi estensi, FerraraCosì, la memoria dei fasti di quel palazzo dimenticato tornò a farsi viva. Negli ambienti artistici ferraresi si pose la fatidica domanda: “È possibile recuperare gli affreschi del duca?”.

 

Qualcuno decise di agire: Giuseppe Saroli, professore della locale scuola di disegno, artista e collezionista. Non sappiamo con quali autorizzazioni, ma Saroli si arrampicò sulla stretta scala che portava al Salone e, guidato dalle descrizioni di Baruffaldi, cominciò ad analizzare la parete orientale. Intervenne dove lo strato di pittura era più spesso e scoprì i primi metri quadrati di quelle pitture credute perdute.
Dopo la sensazionale scoperta, chiamò al suo fianco
Francesco Avventi e Luigi Caroli. Le fonti sul loro intervento diretto sono incerte: nessuno dei due, per quanto esperto d’arte, era però un restauratore professionista.

 

La notizia fu divulgata nel 1821 negli Atti delle Adunanze Solenni nella Scuola di Ornato del Comune di Ferrara (1820-22), dove il Conte Ercole Graziadei ricordò l’“intervento accurato” di Saroli nella scoperta parziale degli affreschi.

 

Eppure, il restauro non cominciò che nel 1836. E, a parte il discorso di Graziadei, il merito di Saroli venne presto oscurato. Dopo quindici anni, erano ancora visibili soltanto i registri inferiori dei mesi di marzo e aprile, da lui riportati alla luce, quando il Comune affidò l’incarico ufficiale al pittore e restauratore bolognese Alessandro Compagnoni. Nel 1838 furono scoperti integralmente i mesi da marzo a giugno, nel 1840 si arrivò a settembre. Purtroppo, gli affreschi delle pareti occidentale e meridionale andarono quasi del tutto perduti con la calce sovrapposta: i pittori avevano infatti alternato la tecnica dell’affresco alla tempera a secco, più rapida e brillante, ma meno resistente.

 

Riscoperta del Salone dei Mesi di Palazzo SchifanoiaNon sappiamo con certezza cosa avvenne nei quindici anni intercorsi fra la scoperta e l’incarico a Compagnoni. Possiamo solo ipotizzarlo. Avventi, nella sua Guida per Ferrara del 1838, scrisse: “Tuttavia serve a temprare, in qualche modo, il rammarico che proviamo di tanto vandalismo la parte che rimane ancora di quelle pitture, e quella che ci lusinghiamo di poter ricuperare, al quale scopo tendono con grande impegno le cure di questa Comunale Magistratura, e della Commissione d’Ornato”.
Parole che lasciano pensare a un coinvolgimento della Scuola di Ornato, dove insegnava Saroli, in un progetto mai realizzato.

 

Ulteriore conferma si trova nella vibrante lettera che Saroli scrisse nel 1840 a Camillo Laderchi, che lo aveva evidentemente criticato nella sua relazione sui dipinti di Schifanoia indirizzata al Marchese Pietro Estense Selvatico (Bologna, 1840, Tipografia della Volpe). Saroli gli ricordò che aveva taciuto i nomi di chi per primo aveva fatto la scoperta, replicò alle accuse di imperizia rivendicando la qualità del suo metodo nel riscoprire gli affreschi (le parti da lui scoperte risultavano infatti le meno danneggiate), e contestò il fatto che si lodasse Compagnoni per la stessa operazione che lui aveva già compiuto quindici anni prima. Non solo: denunciò che il Comune, senza alcun annuncio pubblico, aveva di fatto escluso lui e gli artisti locali, negando loro la possibilità di contribuire a un lavoro che avrebbe dato prestigio alla città.

 

Il tempo trascorse e con esso si persero fonti essenziali. Negli scritti successivi il ruolo di Saroli fu spesso minimizzato o dimenticato. Giovanni Rosini, nel 1841, parlò di “pitture ultimamente scoperte”, e ancora nel 1886 Harck scriveva: “Nel 1821 si erano già scoperti gli affreschi, per merito del Prof. Giuseppe Saroli, se dobbiamo credere alle sue parole nello scritto indirizzato a Camillo Laderchi…”.

 

Giuseppe Saroli e il Salone die Mesi di Palazzo SchifanoiaIntanto, gli occhi del mondo si rivolgevano a Schifanoia e agli antichi maestri ferraresi, che tornarono protagonisti di una stagione di interesse nazionale e internazionale. Nel 1838 alcuni nobili ferraresi imitarono nei costumi carnevaleschi gli abiti raffigurati negli affreschi; Laderchi redasse il catalogo della Quadreria Costabili, la maggiore raccolta cittadina, ricca di tavole dei primitivi (1838-41); nel 1842 la notizia del ritrovamento comparve su Il Tiberino; nel 1850 i mesi vennero pubblicati nell’Album Estense; nel 1855 Jacob Burckhardt, nel suo Der Cicerone, definì Schifanoia il più importante monumento storico-culturale di quell’età. 

 

L’ondata di notorietà portò a Ferrara non solo il pubblico internazionale del Grand Tour, ma anche i primi grandi conoscitori europei – i cosiddetti trustees – come Otto Mündler, Henry Layard, Charles Eastlake, Giovanni Morelli, Alexander Barker. Tutti interessati ad approfittare della dispersione delle quadrerie storiche ferraresi per arricchire le proprie collezioni e le gallerie nazionali estere. Sono poche le opere che la municipalità o i collezionisti privati riuscirono a salvare ed a conservare. Alcune di queste sono visibili nella Pinacoteca Nazionale, istituita però ufficialmente solo nel 1836, quando ormai molte opere erano già uscite dalla città.

 

Nuovo allestimento del Salone dei MesiLa dispersione delle grandi collezioni private proseguì per quasi un secolo, accompagnando la lunga vicenda conservativa del Salone dei Mesi, che oggi – grazie a un nuovo progetto di illuminazione – possiamo ammirare in tutta la sua magnificenza.

 

Forse senza l'iniziativa di Giuseppe Saroli nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Restituendo alla città e al mondo un capolavoro creduto perduto, quel professore ci ha lasciato un’altra lezione: che vale la pena lottare per ciò in cui si crede; che amare profondamente qualcosa – in questo caso l’arte dei pittori ferraresi – significa avere fiducia nella sua capacità di attraversare i secoli, lasciare un segno e trasmettere un significato concreto alle generazioni future.

 

È quello che ogni insegnante desidera per i propri studenti, ciò che ogni appassionato d’arte invoca per le opere che ama: che sopravvivano, che parlino ancora, “per amore solo di verità”, come scriveva Saroli.

Bibliografia, link, ed altri documenti utili alla scrittura dell'articolo:

 

 

Genziana Ricci
Sono Genziana Ricci, una blogger curiosa e da sempre appassionata di storia, cultura e arte. Ho creato questo blog per condividere con i lettori piccole e grandi storie del territorio di pianura bolognese, ferrarese e modenese. Credo profondamente nel valore del confronto e della divulgazione di conoscenze legate alla nostra storia, alle tradizioni e alla cultura del territorio, perché sono parte della nostra identità e possono offrire alle nuove generazioni insegnamento e arricchimento. Del resto, la storia ha bisogno di camminare sempre su nuove gambe.

 

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