Nel cuore della pianura padana, dove il torrente Parma sfiora pigramente le mura di un palazzo monumentale, si nasconde una storia che ha poco da invidiare ai più celebri intrighi di corte europei. La Reggia di Colorno, con le sue oltre 400 sale, non è solo un capolavoro architettonico, ma un teatro in cui si sono consumati tradimenti, passioni e colpi di stato mascherati da giustizia.
Tutto inizia con Barbara Sanseverino, una donna la cui bellezza era così leggendaria che persino Torquato Tasso le dedicò versi celebrando la sua chioma bionda. Nel Cinquecento, Barbara trasformò l'antica rocca medievale in una residenza rinascimentale raffinata, riempendola di capolavori di Tiziano, Raffaello e Mantegna. Ma la sua vita dorata si infranse nel 1612, quando fu coinvolta nella famigerata "congiura dei feudatari" contro il duca Ranuccio I Farnese.
La storia ufficiale racconta di un complotto per assassinare il duca, ma già i contemporanei sussurravano la verità: Ranuccio voleva espandere i suoi territori e i feudatari ribelli erano proprietari proprio delle terre confinanti che ambiva. Dopo processi sommari, Barbara e gli altri congiurati furono decapitati in piazza.
Il duca, magnanimo, vietò lo scempio dei corpi, ma si impossessò di tutti i loro feudi. Colorno, con il suo palazzo e le sue collezioni d'arte, divenne proprietà farnesiana in un colpo solo.
Fu però nel Settecento che la Reggia conobbe il suo massimo splendore, quando il Ducato passò ai Borbone. Nel 1749 arrivò Filippo di Borbone con la giovane moglie Luisa Elisabetta, figlia del re di Francia Luigi XV e cresciuta tra i fasti di Versailles.
La duchessa, sposata a soli dodici anni e costretta a vivere per anni sotto l'occhio vigile della temibile suocera Elisabetta Farnese a Madrid, vide in Colorno l'opportunità di ricreare il mondo che aveva lasciato.
L'architetto francese Ennemond Alexandre Petitot fu chiamato a trasformare il palazzo in una "piccola Versailles". Nacquero così gli stucchi rococò, il grande scalone verso i giardini, i salottini cinesi tappezzati con carte da parati esotiche. Luisa Elisabetta importò non solo lo stile francese, ma anche le abitudini gastronomiche d'oltralpe: ancora oggi i parmigiani parlano un dialetto zeppo di francesismi e amano le rane fritte, eredità diretta di quella duchessa nostalgica che però non smise mai di tornare a Versailles ogni volta che poteva.
Il loro figlio Ferdinando I ereditò il ducato a quattordici anni, orfano di entrambi i genitori. Gli austriaci gli imposero come moglie Maria Amalia d'Asburgo-Lorena, sorella maggiore di Maria Antonietta e unica tra le sedici figlie di Maria Teresa a ereditarne il pessimo carattere. Maria Amalia arrivò a Parma già irritata: era più vecchia del marito di cinque anni, detestava sua madre e molte delle sue sorelle, e scoprì presto che il primo ministro Du Tillot si era opposto al suo matrimonio.
Nonostante le resistenze, questa duchessa ribelle prese in mano le redini del governo. Ferdinando, tipo mite e religioso che avrebbe preferito prendere i voti, si accontentò di studiare, pregare e, si dice, frequentare i contadini parlando in dialetto. Fece costruire la magnifica Cappella di San Liborio e un osservatorio astronomico nei suoi appartamenti, ma lasciò che fosse la moglie a governare davvero.
Maria Amalia amministrò il ducato per trentaquattro anni con pugno di ferro, aggirando i ministri che le negavano i fondi: quando non le davano soldi per le opere pubbliche, li prelevava segnandoli alla voce "trucco e parrucco". Austria, Francia e Spagna, vedendola così indipendente, le tolsero i sussidi. Nel frattempo, ebbe sedici figli, sempre continuando a governare, fino a quando Napoleone non la segregò per sei anni nel Palazzo Ducale. La morte sospetta di Ferdinando – ufficialmente per indigestione da carne di maiale, evento impossibile per un parmigiano doc – chiuse tragicamente la sua storia.
Dopo le tempeste napoleoniche, Colorno divenne una delle residenze preferite di Maria Luigia d'Austria, seconda moglie di Napoleone, che aggiunse il giardino alla francese e vi espose la statua del Canova che la ritraeva come Concordia. Con l'Unità d'Italia, i Savoia svuotarono la Reggia di ogni prezioso arredo e dal 1873 la Reggia e il convento dei Domenicani voluto da Ferdinando furono trasformati in ospedale psichiatrico, funzione che mantennero fino al 1978.
Oggi la Reggia è visitabile nella sua parte nobile, mentre gli ex spazi del manicomio restano abbandonati, alimentando leggende di fantasmi. Ma ciò che davvero affascina di questi luoghi è la memoria di donne straordinarie che, tra congiure e rivoluzioni, hanno lasciato il segno indelebile della loro personalità in ogni sala, in ogni stucco dorato, in ogni angolo di quel giardino che ancora profuma di grandezza perduta.
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