La morte del bandito Giacomo Del Gallo raccontata da Giulio Cesare Croce
Non conosco approfonditamente Giulio Cesare , ma di recente l'amico ed Assessore alla Cultura del Comune di Castel Guelfo, Gianluigi Tozzoli, ha portato alla mia attenzione uno dei suoi componimenti intitolato "La Barzelletta sopra la morte di Iacomo Dal Gallo, famosissimo bandito", composto nel 1591.
Giulio Cesare Croce nacque a San Giovanni in Persiceto nel 1550. Suo papà era un fabbro, ma avendo ravvisato in lui ingegno e fantasia, invece che instradarlo al suo mestiere lo mandò a scuola. Purtroppo il padre morì presto ed il ragazzo fu costretto a seguire lo zio, anch'egli fabbro, a Castelfranco Emilia dove continuò gli studi presso un maestro del luogo, anche se a suo dire non imparò molto. Lavorò come fabbro nella bottega dello zio che nel 1563 si trasferì in una località di Castel Guelfo della quale era proprietaria la nobile famiglia Fantuzzi, che avendo notato in lui un certo talento letterario, gli fece completare gli studi a sue spese.
Nel 1568, trasferitosi a Bologna, insieme al mestiere di fabbro esercitò quello del cantastorie. Si aggirava per le strade con una specie di lira in mano, recitando le sue composizioni accompagnate dalla musica.
Lui la chiamava la "letteratura del chiacchieramento" poiché a differenza di quella colta dava spazio ai dialoghi, alle vicende quotidiane della gente comune, al mondo contadino.
Divenne famoso per le storie di Bertoldo, della moglie Marcolfa e del figlio Bertoldino e le sue storie furono tradotte nel Settecento anche fuori dall'Italia, in spagnolo, portoghese e francese.
Morì a Bologna, nella sua casa in via Lame, nel 1609.
"La Barzelletta sopra la morte di Iacomo dal Gallo, famosissimo bandito" è una sua opera poco conosciuta, pubblicata a Bologna dopo la sua scomparsa, nel 1621.
Le sorti dei due si saranno certamente incrociate nell'ambito di quel chiacchieramento quotidiano al quale il Croce prestava molta attenzione ed è importante constatare quale pungente capacità di analisi sociale il Croce dimostri nel descrivere la figura di questo bandito che con Pozzarino del Sesto (Imolese) aveva infestato la zona di Castel Guelfo alla fine del Cinquecento.
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L'opera narra degli ultimi istanti di vita di Giacomo Del Gallo ed a differenza di quelle di altri cronachisti che avrebbero narrato molto tempo dopo gli eventi, ha il pregio di essere stata scritta appena successi i fatti. Quindi, al di là della prosa, tra le righe potrete riscontrare una testimonianza storica di grande importanza.
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A quanto risulta dal componimento ma anche da altri resoconti storici, Giacomo Del Gallo era un bandito temuto, ma non amato: era a capo, insieme a Giambattista Pozzo (Pozzarino del Sesto) di una banda di malfattori numerosissima (si parla di almeno 1800 uomini), spartita fra Imola e Castel Guelfo di Bologna, si faceva chiamare "Signore" dai suoi sottoposti e probabilmente godeva nel sentirsi soprannominato "il Principe di Romagna" o "il Papa dei banditi" dagli ambienti politici e amministrativi, aveva un arrogante atteggiamento di comando, usava occupare con la forza le abitazioni per rifugiarcisi coi suoi compari, non aveva rispetto per nessuno, tanto più che il Croce, a differenza dello storico del Novecento Eric J. Hobsbawn, definì il banditismo di quel periodo come la causa della carestia, delle pestilenze e delle disgrazie del tempo e non il contrario.
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Nell'articolo dedicato a Stefano Pelloni, il Passatore di Romagna, vi parlavo della dura battaglia che dovette condurre lo Stato Pontificio per debellare il fenomeno del brigantaggio in quelle terre alla metà dell'Ottocento. Ma questa lotta non era nuova ai governanti, che già dal XVI secolo dovettero affrontare con le loro milizie la grossa piaga. A nulla valevano i rimedi posti in essere da Duca di Ferrara, dai governatori romagnoli, dal Granduca di Toscana e nemmeno le nuove macchine da guerra. Così Papa Gregorio XIV, volendo distruggere questa "razza di gente" che inquietava tutto lo Stato, decise di mandare a Forlì il Cardinale Legato di Romagna Francesco Sforza.
Il Croce fa riferimento infatti a "...ql Gran, che di Romagna venir suole, e l'altre cose, per ste genti fetidiose non poteva passar più" e dimostra fiducia quando scrive "Hor farà sicuro in tutto il confin da sti ladroni, e si nettarà i cantoni, che non ci verran mai più".
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Il Cardinale ebbe l'intuizione giusta: pose sulla testa dei banditi una taglia di 50 scudi (secondo altre fonti sono addirittura 100) e garantì il perdono a quanti, tra i briganti stessi, avrebbero portato la testa di un compagno.
Questo spiega, a mio vedere, la parte del componimento in cui il Croce scrive: "Si facea chiamar Signore da quegli altri traditori, e sprezzava i Superiori, e voleva esser da più...", come ad intendere che probabilmente, per via della taglia, furono i suoi stessi sottoposti a tradirlo causandone la cattura e la morte.
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Il Cardinale Francesco Sforza, con l'aiuto della Cavalleria del Duca di Ferrara, riuscì a porre rimedio ai disordini ed alle continue aggressioni di banditi che, a furia di impiccagioni, risolse nel giro di pochi mesi, riportando sicurezza e tranquillità nella provincia.
Il Croce sollecita questi interventi quando scrive "Dimostrate à quei ladri, che voi dite da douero, perché gl'è maturo il pero e si marcia, e non può più".
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Nelle strofe successive, il Croce mette in luce uno degli aspetti sociali più importanti di quegli avvenimenti storici: "Non vogliate comportare, ch'una fetta di villani habbia 'l modo i le sue mani, che'l dover no lo vuol più", "E voi gente inerme, e vile, usi ai campi, & alle zolle, dismettete le pistolle che'l zappar vi confà più", "Ritornate ai vostri greggi, & ai rustici lavori, e non fate i begli humori, nè sturbate il mondo più".
A suo avviso, dunque, questa è essenzialmente una rivolta di contadini e non si può permettere ad un gruppo di questi di prendere il potere perché li ritiene adatti a lavorare la terra e non a compiere quasiasi tipo di rivoluzione. Un concetto che lo stesso Karl Marx avrebbe ribadito più di due secoli dopo.
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L'incubo finì nel 1591, con grande soddisfazione anche del nostro cantastorie, quando Giacomo Del Gallo si asserragliò con qualche compare dentro a Palazzo Riario presso la Villa del Giardino, una splendida dimora che fu fatta costruire dal marito di Caterina Sforza. Questa villa aveva anticamente un enorme giardino, che oggi non esiste più se non nel toponimo della località di Castel Guelfo, chiamata appunto Giardino.
Del Gallo fu dunque snidato ed ucciso alla spicciolata, così come altri suoi compari rifugiatisi nel palazzo del Conte Alessandro Codronchi a Montericco.
Oggi del luogo di cattura del brigante non rimane che un rudere disperso in un campo di sorgo. Il tempo ha spazzato via gran parte delle testimonianze di quel complesso momento storico. Eppure il componimento del Croce ha attraversato i secoli per arrivare fino ai nostri giorni, più attuale che mai.
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Non mi rimane che lasciarvi il link al documento pdf del componimento, affiancato dalla trascrizione in prosa di Gianluigi Tozzoli, che aiuterà a comprendere meglio il testo: Scarica il componimento di Giulio Cesare Croce.
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Vi auguro una buona lettura :)
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Documenti, link ed altri materiali utili alla scrittura dell'articolo:
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- "Giulio Cesare Croce – Sopra la morte di Iacomo Dal Gallo – famosissimo bandito" – Relazione redatta da Gianluigi Tozzoli, Assessore alla Cultura del Comune di Castel Guelfo di Bologna.
- "Il Passatore, nient'altro che un dilettante!" - post a cura della pagina facebook "Storia e storie di Forlì" di Luciano Versani (20 luglio 2017).
- Il componimento è disponibile in formato digitale nella sezione dedicata agli opuscoli di Giulio Cesare Croce della Biblioteca Digitale dell'Archiginnasio di Bologna.
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